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Graceland
Lo ricordo bene, quell’anno,
quando nella Citroën Dyane 6
cantavamo a squarciagola Graceland di Paul Simon.
Capivamo poco delle parole,
ma sentivamo che quel disco
raccontava un viaggio —
o forse un sogno travestito da strada —
un luogo di speranza,
una fuga luminosa.
Era la musica a guidarci,
a entrare nel cuore dell’altopiano silano,
tra faggeti e pini che sapevano di resina e futuro.
Nelle nostre menti
la partenza, l’università, il domani
si mescolavano ai boschi,
alle curve della montagna,
al respiro lento della giovinezza.
L’auto ci cullava
e ci mostrava un futuro come un puzzle
da riordinare, da comporre,
con mani impazienti e sorrisi aperti.
In auto con mia figlia, oggi,
ascolto ancora Graceland.
La mente smonta quel puzzle:
i pezzi non coincidono più,
sono più amari, più veri.
Ma l’amicizia è intatta,
viva come allora,
come quei due ragazzi
che giocavano a tennis
portandosi la rete
nella Dyane 6 sbiadita,
più arancio che rossa.
Franco